Archivio mensile:gennaio 2013

La vicenda Forteto: “Vi racconto i sei mesi nell’inchiesta-incubo”

L’intervista, parla Paolo Bambagioni

Il vicepresidente della Commissione regionale d’inchiesta (in quota Pd) sul caso-Forteto

Paolo Bambagioni (Germogli)

Paolo Bambagioni (Germogli)

Firenze, 27  gennaio 2013 – Paolo Bambagioni (nella foto), vicepresidente della Commissione regionale d’inchiesta (in quota Pd) sul caso-Forteto: è stato un lavoro sconvolgente?
«Molto impegnativo anche sul piano emotivo. Serrato, faticoso. E’ durato sei mesi».
Un momento più difficile di altri?
«Più d’uno: tutti i racconti dei ragazzi, oggi uomini e donne. Gli ultimi. I più deboli. Sottratti alle famiglie d’origine e traditi dalle persone che li avevano ricevuti in affidamento. In Commissione hanno trovato il luogo di ascolto che non avevano mai avuto. Eppure c’è chi aveva scritto alla magistratura, ai giornali».
 

Il Forteto era una realtà surreale: eppure è andata avanti per decenni. Ma sul perché è potuto accadere neanche la Commissione dà una risposta precisa.
«La relazione, approvata all’unanimità, dà risposte. C’è una precisa responsabilità del Tribunale con i nomi delle persone che hanno svolto la funzione negli anni. Che hanno preso minori in difficoltà per assegnarli a famiglie affidatarie di una Comunità ai cui vertici c’erano persone condannate nell’85 per reati sui minori. All’epoca ci fu chi, tra i giudici, sostenne che la sentenza contro Fiesoli e Goffredi era sbagliata. La verità è che negli anni c’è stata la mitizzazione di certe persone, in un contesto ideologico. Sarebbe bastata la constatazione obbiettiva dei fatti».
Fiesoli tesseva la rete delle relazioni ‘eccellenti’. E perché non vi fu, invece, una rete adeguata di controlli?
«Giusto. Il servizio sociale segnala il bambino che sta male nella famiglia d’origine. Il giudice valuta e glielo toglie. Il primo errore di fondo è qui: la mancanza di requisiti delle famiglie affidatarie. Vero è che si trattava di affidamenti e non di adozioni. Però i criteri di assegnazione devono essere egualmente rigorosi. E ammettiamo pure l’errore iniziale dei servizi sociali in relazione all’affidamento. Ma poi? I controlli? I bambini non sono vuoti a perdere…Abbiamo ascoltato il giudice Laura Laera, attuale presidente del Tribunale dei minorenni, la quale ci ha spiegato di aver riletto molti fascicoli sugli affidi di quegli anni, trovando quasi nulla!»
L’istruttoria era scarna?
«Ci si limitava spesso, troppo spesso a scrivere ‘dateci due nomi’, o giù di lì…»
E sulle capacità di Fiesoli di intessere rapporti ai più alti livelli politico-istituzionali?
«E’ provata la sua capacità di accreditarsi coi presidenti di Regione, Provincia, con gli assessori competenti. I rapporti con i politici erano ricercati e valorizzati, come forma di autoaccreditamento. E di protezione: visti i nomi altisonanti che circolavano chi avrebbe pensato a che cosa accadeva davvero, là dentro? Quanto al mondo accademico e scientifico, c’è chi ha scritto libri, prefazioni, partecipato a convegni e iniziative. Insomma: era una continua prospettazione del modello-Forteto»
In che cosa consisteva?
«La Comunità nasce nel ’75, anni in cui si propugna il superamento della famiglia tradizionale. Fiesoli sostiene che la famiglia è luogo di egoismi, che si vive meglio in modo comunitario, a contatto con la natura. Ecco il sostrato ideologico e la mitizzazione. Occorreva verificare, invece. E poi la continua pressione psicologica cui erano sottoposti i minori: al bando i contatti eterosessuali. Altrimenti c’era una sorta di processo. Fiesoli diceva che il giovane che non seguiva le sue direttive aveva dei problemi e che lui l’avrebbe purificato…Dalle dichiarazioni raccolte emerge una personalità disturbata. Si era creato una comunità a misura sua».
La politica ne esce male
«La politica come ricerca di giustizia, per creare condizioni sociali più giuste. Senza sostituirsi alla magistratura».
Si salvano in pochi
«Rinaldo Innaco, negli anni Ottanta consigliere regionale aveva un nipote al Forteto. Parlò della situazione, gli fu detto che aveva un concetto di famiglia desueto, da bacchettone… Pieraldo Ciucchi si è attivato in un secondo momento. Poi Fabrizio Mattei, ex sindaco di Prato, uno libero nel manifestare le sue convinzioni. Ricordo le difficoltà per la raccolta delle firme per attivare la Commissione: della mia parte politica ha firmato solo lui. Certo Innaco e Mattei erano più informati: l’esperienza del Forteto nasce alla Querce, a Prato. Qualcosa era trapelato».
La Regione vuole costituirsi parte civile: non le pare un’iniziativa tardiva, come a voler rimediare a un grosso pasticcio?
«No, anzi considero la dichiarazione di Rossi sul piano politico come una presa di coscienza e di consapevolezza. Una maturazione al termine di un percorso difficile e delicato».
Il Forteto-azienda che fine farà?
«Si è parlato di posti di lavoro a rischio. Ci sono l’associazione, la cooperativa agricola, braccio economico della struttura, la fondazione onlus della quale è responsabile del progetto e referente Luigi Goffredi….Nata più di recente, è andata nelle scuole a presentare il progetto. Io sono d’accordo con quanti dicono che devono essere differenziati i gradi di responsabilità. Che non bisogna con l’acqua sporca gettare via il bambino. Basta che queste tre realtà siano trasparenti e riconoscano gli errori al loro interno: chi ha sbagliato deve pagare».
giovanni spano

Fonte: La Nazione.it

Tg2 dossier “La prigione delle sette” 01-10-2011

Mugnai, presidente della Commissione regionale d’inchiesta parla del Forteto

Il caso Forteto – Testimonianze

 

I bambini fantasma delle sette d’Italia

Trascinati dai genitori o vittime di «guru» pedofili
ELENA LISA
TORINO
Al centro una «figura carismatica». Attorno una casta di «eletti». Più in basso, gli «adepti»: uomini, donne. E i loro figli, anche piccoli: «bambini fantasma» dei quali si sa pochissimo, vittime indifese di violenze psicologiche e fisiche in nome di una pseudo-religione o di «credo» mascherati.

«In Italia succede sempre più spesso», è la drammatica denuncia di Telefono Azzurro. Ma quanti sono i bambini coinvolti? Non esistono cifre ufficiali, ma è ragionevole ipotizzare una stima di diverse centinaia, visto che il numero complessivo di «adepti» italiani, secondo le associazioni che riuniscono i parenti delle vittime, supera abbondantemente il milione. Una sola setta, la «Arkeon», controllava diecimila persone cui ha sottratto negli anni milioni di euro: contro i suoi undici leader è in corso un processo a Bari in cui per la prima volta è stata riconosciuta l’accusa di «associazione a delinquere». E tra i numerosi capi di imputazione, compare anche il «maltrattamento di minori».

Dice Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro: «Non ci sono soltanto i bambini trascinati nella setta dai genitori o da qualche pedofilo travestito da guru. Ci sono anche quelli che nascono dentro la comunità. Sono più fortunati degli altri: avendo avuto pochi contatti con il mondo esterno non devono sottoporsi a continui “riti di purificazione”. Ma di loro si hanno poche, debolissime tracce. Spesso non sono neppure registrati all’anagrafe».

Il quadro che emerge dai racconti dei seguaci in fuga e dalle denunce raccolte da polizia e carabinieri è terribile. Figli piccolissimi «regalati» dai genitori al capo-setta o a tutta la comunità. Confessioni «aperte» sulle pratiche sessuali, alle quali i bambini sono costretti ad assistere. Violenze quando vengono sorpresi a disubbidire – dove disubbidire significa anche solo parlare con la mamma – scariche elettriche, ustioni, droghe e psicofarmaci. Per «purificare lo spirito» è proibito piangere: i piccoli che lo fanno sono chiusi in stanze buie, minacciati o costretti al digiuno, umiliati «pubblicamente, davanti ai coetanei, per imprigionarli nell’insicurezza e tenerli legati.

«Riceviamo decine di segnalazioni ogni giorno – spiega Lorita Tinelli, presidente del Cesap, il Centro studi sugli abusi psicologici – e non è un azzardo ritenere che le sette “abusanti” in Italia siano circa un migliaio. Censirle non è facile: agiscono nell’ombra, e una volta scoperte si ricostituiscono in breve tempo sotto un altro nome».

L’ultimo elenco «ufficiale» delle congregazioni in Italia è vecchissimo, addirittura del ‘98. A produrlo il Dipartimento di Pubblica Sicurezza in un rapporto dal titolo «Sette religiose e nuovi movimenti magici in Italia» che calcolava 137 gruppi settari: 76 religiosi e 61 magici. Già allora le più diffuse erano le psicosette. «Gruppi “motivaziona- li” che agganciano i più giovani e promettono risultati sorprendenti a scuola, nello sport, con gli amici – spiega Maurizio Alessandrini, presidente della Favis, l’associazione dei familiari delle vittime -. Negli ultimi anni le psicosette si sono moltiplicate a dismisura entrando anche nelle scuole. Del resto, l’Italia è tra i pochi Paesi in Europa dove non c’è una legge ad hoc e nemmeno è punito il reato di “manipola- zione mentale per fini illeciti”».

Di un fenomeno che dilaga si occupano associazioni laiche e religiose: «Riceviamo spesso chiamate da coniugi che si stanno separando – dice Don Aldo Buonaiuto, della comunità Papa Giovanni XXIII -. Non riescono più a vedere i figli e sospettano che siano finiti in una qualche comunità strana insieme all’altro genitore».

Le forze di polizia, che hanno formato squadre antisette con psichiatri e psicologi, confermano l’allarme. «Ho incontrato molti ragazzini irretiti da figure carismatiche, trascinati nelle sette all’insaputa della famiglia – dice Giorgio Manzi, comandante del reparto analisi criminologiche dei Carabinieri -. I genitori devono vigilare, cogliere ogni sfumatura di cambiamento nei figli. Il rischio, se non lo si fa, è perderli per sempre».

Plagiata dal santone – I fatti vostri del 10 gennaio 2013

Giancarlo Magalli intervista una vittima di un santone e la Prof. Anna Maria Giannini

La mia vita nell’organizzazione dei testimoni di Geova

La mia vita nell’organizzazione dei testimoni di Geova.

La mia vita nell’organizzazione dei testimoni di Geova

Sta per calare la sera, il 10 dicembre 1974, quando vengo alla luce non senza difficoltà. I miei genitori, Anna e Mario, sono in Italia da un oltre un anno. Avevano deciso di rientrare dalla Germania dopo la nascita di mio fratello Giovanni, nato alla fine del 1972.

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Quando sono nato i miei erano già testimoni di Geova da almeno 5 anni. Si erano entrambi convertiti a questo culto e battezzati nel 1969, sebbene in regioni diverse della Germania. Mia madre abitava a Karlsruhe, mio padre era andato in Germania a cercar fortuna negli stabilimenti della Mercedes, nei pressi di Stoccarda. Mia madre era venuta in contatto con i testimoni di Geova nel 1964, ma essendo ancora minorenne e dovendo fronteggiare l’opposizione dei suoi genitori, aspettò la maggiore età per battezzarsi. Mio padre fu messo in contatto con i testimoni di Geova alla fine del 1968, da un collega di lavoro. Complici le difficoltà e forse la solitudine degli emigranti, accettò la loro compagnia, si adeguò agli insegnamenti dei testimoni di Geova e alla loro speranza di “vita eterna”. Erano anni di grande fermento fra i testimoni, l’anno 1975 era vicino e bisognava affrettarsi. Così lasciò il lavoro con le prospettive di una carriera alla Mercedes, si battezzò e partì come pioniere*. Fu assegnato alla neonata congregazione di Karlsruhe, e lì conobbe mia madre. Era cominciato il 1970. Alla fine dello stesso anno si sposarono.

Erano in molti ad attendere la fine nel 1975. Alcuni, spinti anche dalle dichiarazioni della dirigenza dei testimoni di Geova, arrivarono a vendere i propri beni, come la casa, per vivere in attesa della presunta fine con uno stile di vita semplice e privo di distrazioni materiali. Ma il 1975 arrivò e non accadde nulla. Così, quando divenne evidente che le previsioni dell’organizzazione erano sbagliate, i miei si ritrovarono di fronte ad una scelta: restare in Italia, in affitto e con evidenti difficoltà economiche o tornare in Germania, avvalersi dell’appoggio dei parenti e dei molti amici testimoni di Geova rimasti lì e lavorare entrambi per coltivare il sogno di realizzare una casa per la loro famiglia. Scelsero la seconda soluzione e così, pochi mesi dopo la mia nascita, i miei tornarono in Germania. E lì siamo rimasti fino al 1983, anno del definitivo rientro in Italia.

I primi anni in Italia non furono facili. Mi sono dovuto adattare ad un nuovo ambiente, passando da una moderna città, Karlsruhe, in cui vivevo, ad un contesto decisamente più rurale, come la pedemontana veneta. Anche la scuola era tutta diversa. I primi tre anni li avevo fatti in una scuola multietnica, all’avanguardia sotto molti profili, dove le materie classiche erano integrate da moltissime attività come il nuoto, il teatro e perfino l’educazione ambientale! Qui era tutto diverso, non solo la scuola di per sé, ma i compagni, i metodi didattici e gli orari.

Un altro fattore di cambiamento che rendeva il tutto ancora più complicato era il mutato atteggiamento dei miei genitori nei confronti della loro religione, in particolare di mio padre. L’illusione del 1975, il subire delusioni, anche cocenti, da parte di alcuni “fratelli” (che avrebbero dovuto essere le migliori persone del mondo) fecero sì che la partecipazione alle attività del movimento diventasse meno ossessiva. Alcune di queste delusioni riguardavano questioni finanziarie, come investimenti di denaro risultati poi fallimentari, in alcuni casi si trattò di vere e proprie truffe. Altre riguardavano il comportamento di alcuni testimoni che, contrariamente alla facciata di brave persone, non perdevano occasione per criticare, accusare e perfino condannare gli altri. Tutto questo aveva fatto riflettere mio padre che smise lentamente di ubbidire all’organizzazione e non partecipò più con la stessa assiduità alle numerose attività che contraddistinguono i testimoni. Da quel momento in avanti la sua partecipazione alle adunanze e alla predicazione ha subito diversi alti e bassi, che in gran parte dipendevano dalla compagnia che trovavamo nelle congregazioni.

Diverso atteggiamento fu quello di mia madre, che continuò a credere, giustificando le delusioni con la motivazione ampiamente adottata da molti testimoni e sovente suggerita dal Corpo Direttivo: gli uomini sbagliano, ma l’organizzazione, nonostante gestita da uomini che possono sbagliare, è diretta da Dio, quindi degna di fiducia. L’equazione è semplice: dubitare dell’organizzazione significa dubitare di Dio stesso!

Così, fra alti e bassi, sono cresciuto dentro quest’organizzazione, sperimentando ovviamente tutte le delusioni che i figli dei testimoni di Geova devono subire: non ho mai festeggiato un compleanno, non era possibile coltivare amicizie fuori dall’organizzazione, ovviamente non esistevano le festività: Natale, Carnevale, Pasqua, Epifania erano parole che per noi piccoli significavano di solito restare chiusi in casa. Nella migliore delle ipotesi poteva voler dire pranzare o cenare con i parenti, senza però il minimo riferimento alla festa, ai regali e quant’altro. I miei genitori, comunque, sotto questo aspetto, hanno sempre fatto di tutto per non farci sentire troppo diversi, inventando dei diversivi o camuffando le festività in modo che non ne sentissimo troppo la mancanza. L’isolamento a scuola era una prassi, ed essere spesso preso di mira dai compagni di scuola per la sola colpa di essere un figlio di testimoni di Geova diventò presto un’abitudine a cui non cercavo nemmeno di sottrarmi. Potrei fare un lungo elenco di scherzi, offese e umiliazioni subite negli anni di scuola per il solo fatto di essere figlio di testimoni di Geova. Ne ricordo uno per tutti: un giorno, in 4^ elementare, non ritrovai più il giubbotto per rientrare a casa. Fu ritrovato nei bagni della scuola, tutto sporco e infilato in un water.

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Sono cresciuto subendo tutto questo e sotto il continuo bombardamento della solita cantilena: i veri servitori di Dio sono perseguitati in questo mondo, per cui se sei preso in giro e subisci i “dispetti” degli altri è segno che stai nel favore di Dio. Questa convinzione, unita all’impossibilità di fare verifiche accurate e ricerche sulla reale origine degli insegnamenti dei testimoni di Geova mi ha portato, alla fine, al battesimo. Era il 20 gennaio 1990 e io avevo 15 anni compiuti da poco.

Durante gli anni delle scuole superiori ho affrontato diverse “crisi di coscienza”, un po’ perché non approvavo certi atteggiamenti che vedevo dentro le congregazioni cui ci associavamo, un po’ perché, non riuscendo in pieno a soddisfare le “alte” norme morali imposte dai tdg, mi sentivo in colpa. Come quasi tutti gli adolescenti, ho passato la fase critica del passaggio dalla pubertà all’adolescenza, con tutte le sue “tempeste ormonali” e la conseguente sperimentazione della propria sessualità attraverso la masturbazione, ma essendo questa pratica considerata “impura” dai testimoni, mi sentivo indegno di appartenere a quella che consideravo una casta di meritevoli. Anni dopo, diventando anziano, ho constatato che sono molti i testimoni di Geova, e non solo adolescenti, che sfogano la propria repressione sessuale attraverso la masturbazione e la pornografia, spesso con devastanti sensi di colpa. Così come ho notato che vi sono anche quelli che vivono nella più totale libertà senza sentirsi minimamente sotto la condanna divina, la cosa importante è non farsi scoprire.

Ma una cosa mi ha sempre tenuto incollato a questo gruppo: l’uso della Bibbia e i continui richiami ad essa, costanti, quasi spasmodici, e l’idea che tutta la struttura dell’organizzazione, con i suoi insegnamenti, le regole e le imposizioni si fondassero sulla Bibbia. Per ogni attività, per ogni richiesta e per ogni cambiamento di vedute sembrava sempre esserci una solida “base scritturale”. Se c’è una cosa che “devo” ai testimoni di Geova è soprattutto questo, l’avere sviluppato amore per quella che è chiamata “la Parola di Dio”.

Non che i testimoni abbiano un grande rispetto per questo libro sacro, piuttosto fanno dire alla Bibbia ciò che a loro conviene. Oggi sono certo di poter dire che non sono i testimoni di Geova ad adattarsi agli insegnamenti biblici, ma è la Bibbia che viene sistematicamente adattata agli insegnamenti dei testimoni di Geova.

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Eppure mi piaceva leggerla e soprattutto mi piaceva provare a comprenderla. E, siccome le loro spiegazioni avevano una certa logica e, d’altro canto, essendo impossibile o quasi servirsi di fonti extra organizzative per fare confronti, accettare tutto quel che era servito nel piatto diventava la soluzione più conveniente e l’unica possibile. Non va dimenticato che uno dei primissimi insegnamenti che ogni novizio testimone deve accettare è quello della netta divisione fra chi sta nel favore divino (solo l’organizzazione dei testimoni di Geova) e tutto il resto del mondo che invece è sotto il potere e l’influenza del massimo nemico di Dio, il diavolo. Da qui è breve il passo che ti porta a guardare con molta riluttanza tutto ciò che non proviene dall’organizzazione. Sostanzialmente funziona così: tutto ciò che dà ragione alle tesi dell’organizzazione è accettabile e degno di considerazione, tutto ciò che contrasta le tesi dell’organizzazione è frutto del pensiero e dell’insegnamento di questo mondo, che è sotto il potere del diavolo, da cui bisogna stare lontani.

Pensando di essere nell’unico posto al mondo dove poter trovare la “verità” mi sono convinto che stavo servendo Dio. Ma, senza accorgermene, mi ero dedicato al servizio di un’organizzazione umana. Per questo motivo, una volta finite le scuole superiori, da cui sono uscito come il miglior studente maschio dell’anno, ho rifiutato di proseguire gli studi universitari (sempre visti con particolare diffidenza e sottilmente sconsigliati), come avrebbero voluto molti miei insegnanti, e ho rifiutato perfino dei lavori ben remunerati. Essendo un agrotecnico, ricevetti una proposta per dirigere una serie di serre floro-vivaistiche che commerciava in tutta Europa. La paga (nel 1993) era di 5.000.000 di lire mensili, ma il prezzo da pagare era la disponibilità a lavorare in qualsiasi momento, sabati e domeniche inclusi. Si sa, le piante e i fiori non hanno orari …ma i tdg hanno le adunanze, il servizio e tutte le altre attività.

Così ho accettato un lavoro come operaio di una tipografia (la paga era di 750.000 lire mensili) e sono andato avanti. Dopo non molto, forse notando le mie buone capacità, il datore di lavoro mi propose di occuparmi del nuovo magazzino che stavano allestendo, promettendomi una paga migliore (circa 2.000.000) e chiedendomi, ovviamente, una maggiore disponibilità. Cosa pensate abbia fatto? Da buon testimone, essendo insoddisfatto di lavorare a tempo pieno, non solo rifiutai l’offerta, ma dietro suggerimento di un sorvegliante di circoscrizione*, chiesi il lavoro part-time. Il datore di lavoro, pur di non perdermi, acconsentì, e il mese dopo (Aprile 1995) iniziai a fare il pioniere.

Poco dopo arrivò la nomina di servitore di ministero, e io, sempre più inghiottito nel vortice dell’organizzazione, accettai il trasferimento in una congregazione poco distante per servire lì dove il bisogno era maggiore. Ci andai in buona compagnia, mio fratello carnale, anche lui pioniere regolare e un nuovo diplomato della Scuola di addestramento per il Ministero*. Con loro ho condiviso due anni della mia via e un appartamento. Nel frattempo mantenevo il mio vecchio lavoro, perché trovare un altro lavoro part-time era difficile, per cui valeva la pena percorrere tutti i giorni i 50 km per andare e tornare dal lavoro.

Sono stati due anni di sacrifici, soprattutto economici, ma senza dubbio utili a capire che la vita può essere dura. In questo frangente mi sono anche fidanzato con la donna che è diventata mia moglie. Dal momento che la situazione economica (sia sua che mia) era poco stabile, sei mesi prima del matrimonio decisi di interrompere l’attività di pioniere regolare e, per tirar su un po’ di soldi, ripresi il lavoro a tempo pieno. Mia moglie, ovviamente, continuava a fare la pioniera regolare. Non avevamo rinunciato alle nostre mete, volevamo diventare una coppia di pionieri che si metteva a disposizione delle congregazioni con maggior bisogno. Per questa ragione, rinunciammo ad avere una casa tutta nostra e accettammo l’ospitalità dei miei genitori vivendo praticamente in un seminterrato per due anni.

Un anno dopo il matrimonio arrivò anche la nomina ad anziano di congregazione e, in accordo con il sorvegliante di circoscrizione, demmo disponibilità a seguirlo nella sua prossima destinazione. Eravamo praticamente pronti. Avevo già scritto la lettera di dimissioni dal lavoro, conoscevamo anche la nostra destinazione (un paese in provincia di Lecco), quando arrivò la notizia della prima gravidanza di mia moglie. Penso spesso che quell’evento sia stato una specie di “intervento dall’alto”, visto che in quel periodo, per non correre rischi, facevo uso del profilattico.

La sensazione che provai fu simile a chi prende un colpo e cade in ginocchio, tutto avrei accettato, ma un figlio era veramente l’ultimo dei nostri pensieri, e diventò anche il primo dei nostri successivi guai. (Ovviamente il pensiero odierno è cambiato; oggi sono molto, molto felice di aver avuto dei figli).

Primo, rinunciai al nuovo incarico. Non partimmo più. Ma la casa dove stavamo con i miei non avrebbe supportato l’arrivo di un bebé, e poi vivevamo in uno scantinato! Per non parlare dei problemi economici che si presentarono all’orizzonte. Infine, ci furono i problemi caratteriali tra mia moglie e mia madre, che, appena nato nostro figlio, fece il tipico errore delle suocere troppo apprensive e, senza volerlo, si intromise troppo nella nostra vita. Tentai di parlare con mia madre, ma i rapporti erano ormai incrinati e per non peggiorare ulteriormente la situazione, pensammo che forse era il caso di trovare una nuova sistemazione. Solo che eravamo senza soldi, li avevo spesi tutti per acquistare un’auto più grande, adatta ad una famiglia. In quei primi due anni di matrimonio io e mia moglie, a cause delle circostanze, non avevamo mai girato per casa in mutande, ma ora, per usare un eufemismo, eravamo rimasti veramente in mutande.

In poco tempo trovammo una vecchia casa in affitto. Era senza riscaldamento (c’era una sola stufa a legna che doveva riscaldare tre piani!) e ci stabilimmo lì, nel dicembre del 2000, con tanti dubbi sul nostro futuro, tanto freddo e tanti debiti da pagare. Ricordo le difficoltà dei primi tempi: il trasloco, la ricerca dei mobili, la ricerca della legna per il riscaldamento e quasi nessun aiuto da parte dei “fratelli” di fede.

Le sorprese, però, non erano ancora finite, pochi mesi dopo mia moglie era di nuovo in attesa di un figlio. Io continuavo a fare l’anziano, lasciando spesso mia moglie da sola per “pascere il gregge”. Ero un oratore pubblico molto richiesto, in tre anni di attività ho pronunciato circa 70 discorsi pubblici, compresi discorsi speciali e commemorazioni. Avevano cominciato ad assegnarmi dei discorsi anche alle assemblee e la mia “carriera” spirituale sembrava proseguire piuttosto bene, ma non tutto filava per il verso giusto…

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La nascita del nostro secondo figlio, unita ad alcune complicazioni del parto e alla successiva morte di suo padre, aveva fatto cadere mia moglie in una profonda depressione. E nel frattempo io ero sempre più impegnato con le faccende della congregazione. Vivevo situazioni di disagio crescente, continuamente combattuto fra la scelta di stare vicino alla mia famiglia ed il dovere come anziano dei testimoni di Geova. A volte, tornando a casa dalle adunanze (in cui andavo da solo), ritrovavo mia moglie in lacrime e non riuscivo a non chiedermi se avessi fatto bene a lasciarla a casa da sola con due bambini.

Queste mie difficoltà personali furono ulteriormente aggravate da ciò che vedevo negli altri anziani, ovvero la mancanza di preparazione, di vero amore fraterno e di genuino interessamento nei confronti dei bisogni altrui. Ho assistito a penose scenate di gelosia fra anziani, alcune sfociavano in veri e propri litigi fra loro durante le adunanze del corpo degli anziani, con tanto di accuse reciproche e proposta di rimozione dai rispettivi incarichi di servizio. Diventava sempre più evidente che diversi testimoni con incarichi prestigiosi, come anziani, sorveglianti di circoscrizione e beteliti, apprezzavano in modo particolare la posizione raggiunta, l’essere tenuti in alta considerazione e il conseguente “potere decisionale” che ne deriva.

Quello che inizialmente consideravo l’atteggiamento di pochi, divenne presto una triste realtà, dove l’eccezione era rappresentata da quei pochi che consideravano l’essere anziano o sorvegliante un incarico di servizio a favore del prossimo e non una posizione di prestigio da cui ricevere prestigio e favori, o peggio, attraverso cui diventare il controllore della vita altrui.

Sempre più spesso mi domandavo: “E’ questo il comportamento da veri cristiani?”. E se inizialmente cercavo di non farmi influenzare dall’atteggiamento degli altri, nel tempo divenne sempre più difficile, perché l’entrare di più nel privato della vita di molti fratelli mi fece notare in modo inequivocabile che molti di loro non servivano Dio in modo sincero, ma come i loro stessi pastori “dichiaravano pubblicamente di conoscere Dio, ma lo rinnegavano coi fatti”. – Tito 1:16.

Infine ero piuttosto giovane, ero diventato anziano a soli 24 anni, cosa piuttosto rara fra i testimoni e, per questo, subivo le gelosie e le invidie di alcuni “fratelli” più anziani di me di età a cui erano stati negati i privilegi e che non perdevano occasione per criticarmi anche pubblicamente. Mia moglie stava sempre peggio e si stava isolando sempre di più ed io, che avevo già due bambini, passavo le notti a studiare le pubblicazioni della Watch Tower, a leggere le circolari contenenti le direttive della WTS, a preparare le parti delle adunanze e i discorsi e non mi “godevo” minimamente la famiglia.

Alla fine dovetti decidere. E decisi per un cambiamento. Mi presentai un giovedì sera all’adunanza e rassegnai le dimissioni da anziano di congregazione, e con effetto immediato. Gli altri non volevano (forse perché faceva comodo avere qualcuno che lavorava anche per loro), e congelarono la situazione fino all’arrivo del sorvegliante di circoscrizione, che, nel frattempo, era cambiato. Il nuovo sorvegliante comprese la situazione e ufficializzò le mie dimissioni.

Finalmente libero da tanti impegni ricominciai ad occuparmi della mia famiglia e, dismessi i panni di anziano, ricominciai a leggere la Bibbia, analizzandola con maggior attenzione.

Uno dei primi effetti che subii, una volta lasciato l’incarico di anziano, fu il vedere il cambiamento di atteggiamento che i “fratelli” ebbero nei miei confronti. A parte alcune eccezioni, molti si convinsero che questo mio gesto era dovuto alla poca spiritualità, qualcuno pensò che la posizione di anziano mi aveva reso altezzoso e, gli altri anziani, cominciarono a prendermi di mira, indicandomi velatamente come un cattivo esempio. Detto da chi, in una situazione analoga alla mia, aveva deciso di non rinunciare alla posizione trascurando i bisogni della famiglia, la mia decisione suonava come un’accusa alla propria coscienza, per cui, era più facile salire sul podio e dire che chi lasciava l’incarico non riponeva la propria fiducia in Geova e nella sua capacità di aiutarci. Il paradosso è che la moglie di questo anziano un giorno mi confidò di essere atea, di non credere all’esistenza di Geova. Chiesi cosa poteva spingerla a fare una dichiarazione così forte. Rispose dicendo che Dio non poteva lasciare che suo marito, che la maltrattava fisicamente e verbalmente, potesse continuare a mantenere la posizione di anziano. Avrei voluto aiutarla, ma fui raggelato dalle sue successive parole: “Se lo dici a qualcuno, io mi suicido!”.

Essere di nuovo un semplice testimone di Geova mi aiutò a guardare la stessa organizzazione da un nuovo punto di osservazione. Non fu difficile notare che non è un’organizzazione al servizio delle persone, ma un’organizzazione con delle persone al suo servizio. Questa è una delle parole più sentite nelle conversazioni fra testimoni di Geova: Organizzazione, più di Bibbia e perfino di Gesù.

Non è un gruppo di persone veramente felici, ma di individui che eseguono ordini, seguono scrupolosamente delle regole umane, prendono per buoni insegnamenti, ideologie e subiscono passivamente il dominio di chi, secondo loro, rappresenta Dio in terra. Visti “dal basso” sembrano dei soldati, persone integrate in un personaggio preconfezionato per loro dall’organizzazione. Nella maggior parte dei casi, il testimone si sente investito di un alto incarico, in quanto portatore di luce nel mondo. Questa luce proviene dall’organizzazione ed ha un carattere assoluto. Solitamente il testimone non accetta un vero confronto con il proprio interlocutore. Ho spesso visto testimoni di Geova messi in difficoltà da obiezioni di persone ben preparate dire “tornerò un’altra volta per discutere con lei di questo” e poi non mantenere la parola data. Per i testimoni di Geova le persone interessate sono quelle se fanno domande, si accontentano delle risposte date. Chi desidera discutere le “verità” è visto come uno che è meglio lasciar perdere.

Non ci sono più individui pensanti, ma burattini la cui adesione all’organizzazione è totale. Mettere in dubbio qualche insegnamento, spesso anche solo qualche regola dell’organizzazione, suscita nello stesso testimone sensi di colpa così forti da spingerlo a reprimere ogni pensiero che non sia conforme al modello e ai codici di vita imposti. Nel tempo la stessa personalità viene repressa. La cosa a cui i più sembrano dare importanza è la visibilità nel gruppo, la reputazione da costruire, che dev’essere eccellente. Chi non viene visto come buon testimone conosce bene a cosa va incontro: l’isolamento dal resto del gruppo. Di solito, non avendo amici nel resto del mondo, pur di non perdere ogni punto di riferimento, il testimone di Geova è disposto a mentire sulla propria vita privata. Questo atteggiamento è reso ancor più necessario se si considera che la delazione è una pratica largamente diffusa fra i testimoni. Questo espediente dell’organizzazione, dove ognuno controlla il proprio fratello, aiuta a mantenere una facciata di persone dal comportamento esemplare, ma serve nel contempo alla stessa organizzazione per tenere sotto controllo i propri adepti. Ora, dal momento che la posizione di visibilità è privilegio di pochi, ne consegue che la competizione è molto forte, e chi non riesce ad emergere vive spesso in una condizione schiacciata, non solo dai divieti e dalle regole dell’organizzazione, ma dall’impossibilità di coltivare l’autostima e la gratificazione di sé stessi fuori dall’organizzazione. L’essere stato prima molto visibile e poi invisibile mi ha portato a fare queste riflessioni.

Adesso però avevo più tempo per me stesso. E ciò che leggevo dalle Scritture, in particolar modo lo spirito che aveva animato i primi cristiani era qualcosa di molto diverso da quanto vedevo nei miei “fratelli”. Non c’era la condivisione, la felicità e, soprattutto, non c’era l’Amore che il Cristo aveva tanto insegnato.

A questo mia iniziale analisi si aggiunse ciò che un altro testimone di Geova, anche lui emarginato dal resto della comunità, cominciò a dirmi. Lui si definiva membro della classe degli “unti”, coloro che andranno in cielo che, secondo i testimoni di Geova, sono complessivamente solo 144.000 persone. Tutti gli altri, me compreso, avevamo come destino la vita eterna sulla Terra trasformata in un paradiso edenico, e questo per essere venuti al mondo dopo il 1935!

Le cose che questo testimone diceva, pur essendo contrarie alla dottrina dei testimoni di Geova, mi incuriosivano sempre più. Così cominciai a frequentarlo regolarmente. Passammo molte serate in compagnia sua e di sua moglie. E, nel frattempo, approfondimmo alcuni aspetti dottrinali. Negli ultimi tempi si era sviluppato in entrambi il pensiero che forse gli insegnamenti andavano rivisti. Ma come fare? Non avevamo nessuna competenza. Convenimmo che era necessario trovare un ordine. E l’ordine fu che innanzitutto ogni credenza deve essere vagliata confrontandola con gli insegnamenti e l’esempio lasciatoci da Cristo.

I dubbi e le perplessità vennero a galla in poco tempo, era evidente che molti insegnamenti comunemente accettati dai testimoni di Geova non avevano nessun fondamento nel Vangelo, in quello della primitiva Chiesa ma erano solo il risultato della forzatura di alcuni passi biblici per giustificare certe scelte. Quando ci rendemmo conto che perfino la stessa traduzione usata dai testimoni era stata volutamente artefatta per adattarla ai loro insegnamenti, cominciò a farsi strada l’idea che, se veramente volevamo servire Dio, allora eravamo nel posto sbagliato.

Faccio alcuni brevi esempi:

  • Se Gesù disse “Non sta a voi acquistar conoscenza dei tempi e delle stagioni che il Padre ha posto nella propria autorità, perché affannarsi così tanto per riuscire a “indovinare” date impossibili? Perché tanta ansia nel proclamare prima il 1914, poi il 1918, il 1925, il 1975 come possibili date della “fine del mondo”? Senza parlare di quelle meno acclamate, come il 1941, il 1984 e altre ancora! A che pro, visto che chi serve Dio lo fa non in vista della ricompensa ma per amore e riconoscenza?

  • Se Gesù insegnò “Siete tutti fratelli… non siate chiamati rabbi né condottieri” perché erano stati istituiti nelle congregazioni gli ordini gerarchici degli anziani e servitori di ministero con ruoli predeterminati? Perché erano state escluse le donne? E perché i testimoni avevano addirittura esteso questo modo di fare frammentando se possibile ulteriormente le classi dirigenziali, inventandosi Sorveglianti di distretto, di circoscrizione, pionieri, missionari ecc…?

  • Se Gesù, che aveva definito gli scribi e farisei “progenie di vipere”, denunciandone i comportamenti pubblicamente, non si era astenuto dall’accettare inviti a pranzo ricevuti proprio da farisei, perché noi dovevamo rifiutarci di stare in compagnia e mangiare con qualcuno dalle idee diverse dalle nostre, o con un presunto “peccatore” e addirittura togliergli il saluto? Non aveva detto lo stesso Gesù “se salutate solo i vostri fratelli che cosa fate di straordinario?” E non aveva aggiunto che lui era venuto a salvare “coloro che sono persi”?

  • Se Gesù aveva, e più volte, ammonito di non giudicare gli altri, che necessità c’era di formare comitati giudiziari? E chi avrebbe potuto giudicare con libertà di parola, dal momento che siamo tutti peccatori? Non aveva insegnato a dare più valore alla misericordia piuttosto che al giudizio?

  • Se Gesù aveva detto che di tutte le pecore che era venuto a chiamare avrebbe poi formato “un solo gregge sotto un solo pastore”, perché suddividere i credenti in due classi con speranza diversa, come se fossimo servitori di serie A e serie B, stabilendo per giunta che la separazione tra le due speranze dipendeva da una data, il 1935, che nelle Scritture non trova nessun riscontro? Non aveva detto Gesù, in una parabola, che gli operai assunti nell’ultima ora sarebbero stati pagati come quelli che avevano lavorato per tutto il giorno? Quindi, perché discriminare?

Poi scoprimmo che una delle fondamentali dottrine, su cui poggia tutta l’impalcatura dell’insegnamento relativo agli “ultimi giorni”, si basa su una datazione sbagliata, e i testimoni venivano smentiti da autorevoli fonti del mondo accademico, accettate da tutti tranne che da loro. Il loro metodo di calcolo per identificare il 1914 come l’anno dell’inizio del regno messianico di Gesù si basa sulla data della prima distruzione del tempio di Gerusalemme, che loro collocano nell’anno 607 a.C. Tutti gli studiosi sono invece concordi nel collocare la data di questo evento verso il 586/587 a.C.

Queste e molte altre considerazioni ci fecero, nei mesi che seguirono, intensificare l’analisi delle dottrine dei testimoni di Geova mettendole a confronto con lo spirito del cristianesimo che potevamo “respirare” leggendo i vangeli. E fu un periodo molto emozionante, felici delle scoperte che quasi quotidianamente facevamo.

Capire improvvisamente, da soli, tante “verità” fino a quel momento tenute nascoste era meraviglioso, ma contemporaneamente anche difficile da contenere. Non potevamo tenere per noi stessi tutto ciò che scoprivamo. I primi a cui parlai furono i miei genitori, poi al resto della famiglia e infine gli amici, cominciando da quelli più intimi. Sapevamo bene che la nostra era una lotta contro il tempo e che, prima o poi, saremmo finiti bruscamente davanti al tribunale inquisitorio dell’organizzazione, che entrambi conoscevamo molto bene.

Infatti, dopo circa 4 mesi dall’inizio della nostra ricerca, cominciarono a circolare alcune voci sul nostro conto. Qualcuno era andato a riferire loro che le nostre conversazioni creavano scompiglio tra i fratelli. Gli anziani cominciarono la loro attività investigativa e, per prendermi in trappola, dissero a uno dei miei “fratelli” di fede di fingersi interessato a ciò che dicevo. Fece questo, continuando a fare domande su domande. Io, che lo credevo sincero, risposi, e una domenica di fine Giugno del 2004, un anziano mi prese in disparte e mi disse che ero stato accusato di diffondere falsa dottrina nella congregazione. L’accusatore era proprio colui che mi aveva fatto tutte quelle domande!

Il 4 luglio 2004 fui convocato davanti a 4 anziani che dovevano “esaminare” il mio caso ed eventualmente emettere un giudizio.

Ricordo ancora molto bene il giorno del comitato giudiziario.

Chiesi dov’erano i miei accusatori, che, per regola, devono presentarsi di persona ad un comitato giudiziario per formulare l’accusa. Non si era presentato nessuno, ma gli anziani avevano una lettera (che non mi fu mostrata) scritta, a loro dire, da chi mi aveva accusato. A loro, evidentemente, interessava solo “farmi fuori”, espellermi dalla congregazione, in modo da non riuscire più a parlare con nessun testimone di Geova.

Tutti gli anziani erano pronti per la mia “esecuzione“. Ma nessuno di loro era veramente preparato per affrontare una discussione con un “apostata”. Infatti commisero l’errore di provare a discutere con me sulla ragione delle mie nuove vedute, pensando di potermi facilmente raggirare.

Per esempio, uno di loro disse che siccome Giovanni 10:16 parla di “altre pecore che non sono di questo ovile” doveva per forza trattarsi di una classe di persone con speranza diversa da quella celeste, al ché io gli chiesi se conosceva il significato della parola ovile (luogo in cui si custodiscono le pecore). Siccome fu lui stesso a fornirmi la definizione del termine, mi limitai ad aggiungere che evidentemente Gesù non parlava di due speranze, e, siccome le pecore erano sempre pecore (quindi della stessa natura), ciò che cambiava era la loro provenienza d’origine, perché il primo gruppo era quello degli Ebrei naturali (infatti al v.3 Gesù evidenzia che nel primo ovile la porta gli era stata aperta dal portiere, cioè Giovanni il Battezzatore, precursore del Cristo), ma non era così per il secondo ovile, che quindi doveva rappresentare tutti i figli di Dio non discendenti dalle 12 tribù ebraiche. Non parlò più.

Un altro ancora provò a mettermi in difficoltà commentando il versetto di Apocalisse 7:9 in cui si parla della “grande moltitudine”, che, secondo i testimoni, rappresenta tutti coloro che hanno la speranza di vivere per sempre sulla terra. Risposi anche a lui, semplicemente facendo notare che la “grande moltitudine” è vista davanti al trono di Dio, che è in cielo. Infatti, quasi tutta l’Apocalisse, è stata ricevuta in visione con il diretto invito a “salire”, e chi scrisse confermò che il trono che vide “era nella sua posizione in cielo”. (Apocalisse 4: 1, 2) Aggiunsi inoltre che, non si può fare una distinzione di classi nel capitolo 7 dell’Apocalisse, in quanto Giovanni prima “ode” il numero dei suggellati, e successivamente vede una grande moltitudine che nessun uomo poteva contare. Chiesi loro se credevano di riuscire a contare una folla di 144.000 persone. Senza contare che questo numero ha un chiaro significato simbolico. Dal momento che non riusciva a contrastare le mie affermazioni, cominciò ad alzare la voce. Lo invitai a stare tranquillo e gli feci notare che avevo solo risposto alle sue domande, e aggiunsi chiedendo:

Se di fronte all’evidenza dei fatti capisci che c’è una netta divergenza fra la realtà logica delle Scritture e l’artificiosa interpretazione che ne dà il Corpo Direttivo dei testimoni di Geova, tu da che parte ti schieri?”

Mi rispose che avrebbe sempre seguito gli insegnamenti della Torre di Guardia. Fu allora che dissi:

è per questo che sono giudicato? Perché ho deciso in coscienza di farmi guidare dalle Scritture e non dalla Torre di Guardia? Se è così che stanno le cose, abbiamo sbagliato nome! Non siamo testimoni di Dio, ma della Watch Tower Society!”

Indispettito da questo affronto, prese la parola il presidente del comitato giudiziario, che, zittendo gli altri tre, disse:

Non siamo qui per discutere con quest’uomo su chi abbia ragione. La ragione ce l’abbiamo noi, e lui deve sottomettersi e riconoscere l’autorità del Corpo Direttivo o non può più essere considerato un testimone di Geova! Se non lo fa sa già quale sarà la sua fine. Ed è fortunato che non applichiamo alla lettera la Bibbia, perché per una condotta del genere meriterebbe la lapidazione!”

Quando mi lessero la sentenza di condanna, non fu citato nessun versetto biblico per convalidare la loro decisione, ma un articolo della rivista “La Torre di Guardia”, principale organo di informazione dell’organizzazione. Fecero con me una cosa piuttosto insolita. Normalmente, anche di fronte ad una espulsione, il disassociato viene informato che può, se vuole, frequentare le riunioni, a patto di non salutare nessuno, non tentare di iniziare conversazioni e di arrivare dopo l’inizio e andarsene poco prima della fine della riunione. Io fui invitato a non andare più alle loro adunanze, cosa che non feci. Almeno una volta ci andai, e per una precisa ragione. Un testimone a cui avevo perlato delle mie perplessità su alcuni insegnamenti dell’organizzazione, ragionando con me sulla mia probabile disassociazione disse:

Se ti disassociano, tu vieni in Sala del Regno, perché voglio stringerti la mano. Voglio proprio vedere se hanno il coraggio di dirmi qualcosa solo perché sono educato con te e ti saluto.”

Così, la domenica successiva alla mia disassociazione, andai alla riunione e questo signore venne a stringermi la mano. Fu disassociato per averlo fatto e per aver affermato che lo avrebbe fatto ancora.

La mia esperienza nei testimoni di Geova finì in questo modo! Una sorte simile capitò anche all’altro testimone di Geova, che fu disassociato il giorno successivo, come pure un’altra donna che ascoltandoci, aveva compreso di essere stata ingannata.

Un altro fu disassociato perché prese le mie difese e suggerì agli anziani di cercare il dialogo con i dissidenti, invece che giudicare a priori, senza conoscere i fatti.

Nei successivi giorni, settimane e mesi che seguirono la nostra disassociazione anche altri testimoni di Geova, di almeno 5 congregazioni della zona, decisero di uscire dall’organizzazione! Alla fine furono circa 40 le persone che decisero di abbandonare questo culto.

Dal momento che l’emorragia era grave, all’interno delle congregazioni della zona furono fatte circolare delle vere e proprie calunnie sul conto mio e di altri fuoriusciti. La notizia era sufficientemente scandalosa da suscitare la curiosità di molti testimoni della zona. In fondo ero stato anziano, e non solo io. Alcuni fuoriusciti erano pionieri e altri erano servitori di ministero ritenuti esemplari.

Così, approfittando del fatto che in quel periodo mia moglie era al mare con i bambini, fu messa in giro la voce che ero stato dissociato per adulterio con una pioniera regolare (anche lei dissassociata per apostasia). Di altri fu detto che erano mariti poco amorevoli, addirittura violenti con la propria moglie. La voce del mio presunto tradimento arrivò fino a Napoli, dov’era mia moglie con i nostri figli, e ancora oggi ci sono testimoni di Geova che credono che la mia disassociazione sia stata causata dall’adulterio!

Penso che i veri cristiani non farebbero uso della menzogna per far emergere la verità!

Dopo la mia disassociazione una delle prime cose che feci fu quella di procurarmi il libro “Crisi di coscienza”, scritto da Raymond Franz, ex testimone di Geova ed ex membro del Corpo Direttivo, la massima autorità dell’organizzazione. Non lo avevo fatto prima semplicemente perché non volevo farmi condizionare dal pensiero di altri uomini. Rimasi stupito e profondamente amareggiato da quello che leggevo. Capivo che ciò che io avevo sperimentato e visto in piccolo, all’interno della congregazione, era lo stesso spirito che animava quest’organizzazione anche nei suoi vertici. Ma almeno adesso ero libero.

Non è stato facile smettere di essere un testimone di Geova. Il condizionamento psicologico è così forte che ci vogliono anni di lavoro su sé stessi per uscire dagli schemi mentali a cui si è abituati. Molti non ci riescono del tutto. Altri, spinti dal rimorso dei sensi di colpa, o dal completo isolamento in cui si trovano, rientrano nelle fila. Purtroppo qualcuno sceglie soluzioni ancora più tragiche. Non si può negare che l’ostracismo sia la motivazione principale che spinge molti a tornare dentro l’organizzazione. Pur di non perdere i contatti con gli amici e i parenti, sono disposti a fare quello che serve per riallacciare i rapporti interrotti bruscamente. Non è affatto un culto dove trovi la libertà, piuttosto vieni catapultato in mondo irreale, illusorio e, pur vivendo nel mondo, non ne sei più parte. Sei uno schiavo che vive nell’illusione di essere libero. Sono riuscito a svegliarmi da questo lungo sonno, e prego Dio che siano molti quelli che riescano nella stessa impresa.

Andrea Cinel

Breve prontuario della terminologia geovista.

  • Pioniere: Il pioniere è un testimone di Geova che si assume l’impegno scritto, attraverso la compilazione di un modulo che firma, di dedicare un certo numero di ore all’attività di proselitismo che contraddistingue i testimoni di Geova. Vi sono diversi tipi di pioniere: Speciale, Regolare ed Ausiliario.

  • Sorvegliante di circoscrizione: è un anziano itinerante che viaggia di congregazione in congregazione, visitandole regolarmente un paio di volte l’anno. Una circoscrizione è un gruppo di congregazioni geograficamente vicine che mediamente contano all’incirca 800/1200 proclamatori.

  • Sorvegliante di distretto: come il Sorvegliante di circoscrizione ma con la funzione di visitare circoscrizioni. Più circoscrizioni costituiscono un distretto. Solitamente è considerato un testimone di Geova molto esperto.

  • Scuola di Addestramento per il Ministero (SAM): è corso di addestramento intensivo sulle direttive e le regole dell’organizzazione della durata di otto settimane rivolto ad anziani e servitori di ministero scapoli. Molti dei partecipanti vengono poi inviati a servire in congregazioni con carenza di nominati.

  • Anziano: è un pastore spirituale che si occupa di organizzare e coordinare le attività di una congregazione. Fra le sue attività vi sono l’insegnamento e la cura pastorale.

  • Servitore di ministero: è un assistente degli anziani. Non ha la mansione di insegnante. Si occupa di attività di tipo logistiche e assistenziali, come il rifornimento di letteratura e riviste, l’assegnazioni dei territori in cui predicare e la pulizia e la manutenzione delle Sale del Regno.

  • Sala del Regno:luogo di culto dei testimoni di Geova, sede delle attività di una congregazione.

  • Predicazione: è l’attività di proselitismo a cui deve partecipare ogni testimone.

  • Proclamatore: identifica colui che predica. Ogni proclamatore è tenuto a fare rapporto mensile della propria attività di predicazione.

  • Betel: sedi nazionali dei testimoni di Geova. Termine di origine aramaica che significa “casa di Dio”. I beteliti sono testimoni di Geova volontari che prestano servizio nelle Betel in modo gratuito.

Uno dei trucchi di Sai Baba

Sai Baba nasconde un uovo in un fazzoletto, poi lo mette in bocca e finge di materializzarlo. I fedeli gridano al miracolo.

http://www.exbaba.it

Testimoni di Geova e l’ostracismo